Il Palo
Lodovico Ferrari
Faceva il palo nella banda dell’Ortica,
ma era sguercio, non ci vedeva quasi più,
ed è stato così che li hanno presi senza fatica,
li hanno presi tutti, quasi tutti, tutti fuori che lui.
La voce di Jannacci usciva, gracchiante, dal vecchio mangiacassette. L’uomo anziano lo guardava con quel solito timore che gli incutevano le apparecchiature elettroniche, anche le più obsolete. Il ragazzino davanti a lui, invece, osservava il suo viso con attenzione cercando di coglierne segni di sincerità.
– Davvero questa canzone è dedicata a te?
– Non esattamente – rispose l’anziano – Jannacci si è ispirato a un fatto di cronaca di cui io sono stato il protagonista, insomma, la storia è vera e il palo ero io.
– Ma ora ci vedi.
– Quando sono stato in carcere mi hanno operato agli occhi e ho ripreso la vista. Un benefattore anonimo ha pagato l’intervento. Non ne ho mai saputo il nome, ma mi hanno detto che sia stato proprio Jannacci a pagarla.
Il campanello stonato della vecchia casa di ringhiera annunciò l’arrivo di qualcuno.
– Dev’essere tua mamma.
Fatima entrò nel piccolo salotto che odorava di minestrone e di stantio.
– Grazie ancora signor Armando per avermi tenuto Marco.
– Mamma, mamma, lo sai che il signor Armando da giovane faceva il ladro?
La donna guardò il figlio con stupore e imbarazzo.
– Ma che dici, Marco?
– È colpa mia, Fatima, gli ho raccontato una storia…
– Non si preoccupi, signor Armando, andiamo ora, Marco, è tardi.
La donna e il ragazzino uscirono dalla porta per entrare in quella successiva sullo stretto ballatoio che avvolgeva tutto il caseggiato.
Armando richiuse la porta e restò da solo a fissare le scrostature del muro che gli stava di fronte. Forse, questa volta, avrebbe potuto abbandonare quel tugurio. Se tutto fosse andato bene.
Il telefono col filo gli aveva sempre dato una sensazione di maggiore sicurezza, ma non se lo poteva permettere. Le sue poche telefonate non giustificavano una spesa fissa mensile così alta. Nessuno lo chiamava, lui telefonava pochissimo. Il display in bianco e nero del vecchio Nokia gli mostrò un nome: “Sugamann”, asciugamano. Era il nome che a Milano si dava a chi non contava nulla. Il suo migliore amico, l’unico che gli era rimasto.
– Alura, Sugamann, a che ora ci troviamo?
– Tra un’ora davanti al negozio.
La voce all’altro capo del telefono tradiva tensione.
– Stai calmo e vedrai che andrà tutto bene.
Riattaccò.
La situazione non gli piaceva, ma non c’era scelta. Ormai la decisione era presa. Si preparò con jeans e scarpe da tennis.
L’aria frizzante di gennaio contribuiva a tenerlo attento, per il resto ci pensava la paura. Sugamann era già entrato nella gioielleria da parecchio tempo. Armando guardò l’orologio. Cinque minuti. Chi fa il palo deve anche fare attenzione ai tempi. In piedi, fermo davanti alla porta chiusa del negozio, osservava, stavolta con applicazione, i passanti. Dieci minuti. Troppo. Poi un rumore assordante gli trapassò le orecchie.
Sugamann uscì di corsa dalla porta.
– Scappiamo.
L’utilitaria dribblava il traffico milanese con maestrìa, ma senza farsi notare.
– Che hai fatto? Gli hai sparato?
Sugamann era sudato, nonostante il freddo.
– Sì, ma non credo di averlo preso, tieni tu la roba, stasera voglio solo andare a letto.
Le mani tremati dell’amico gli porsero un sacchetto stracolmo, il colpo era andato bene.
“Gioielliere ucciso durante una rapina, il ladro visibile nella telecamera di sicurezza”.
Armando appallottolò il giornale. Secondo lui non lo aveva preso, eh? E si era fatto pure immortalare, ora sì che erano messi male. La testa gli doleva, decise di usare come analgesico la visione della refurtiva. Aprì il sacchetto. Soldi, tanti e gioielli, anche quelli tanti. Ce n’era per vivere tranquilli il resto della vita se quel pirla…
Non gli telefonò, sapeva che la polizia poteva intercettare le comunicazioni. Suo malgrado decise di andare a casa dell’amico, dovevano parlare.
Il 33 fermava proprio in viale Romagna angolo via Pascoli, a due passi dalla casa del Sugamann. Era semivuoto, un’anziana signora infreddolita, con un cappotto dal collo di pelliccia, pareva essere l’unica nata a Milano. Per il resto extracomunitari e meridionali. Non era più la sua Milano, quella di Jannacci, dei “barbun che purtaven i scarp de tennis”, di “t’ho compraa i calzett de seda” e anche i “ghisa”, i vigili, non erano più quelli di un tempo. Ora erano pericolosi. Armando non si rendeva conto di quanto quei suoi pensieri fossero premonitori.
La banda in plastica a strisce bianche e rosse delimitava l’entrata del condominio dove abitava il suo amico. Un brivido scosse Armando. Polizia dappertutto. Continuò apparentemente indifferente davanti all’entrata e voltò l’angolo. Un capannello di persone anziane come lui stavano sedute fuori dal “Bar sport” discutendo animatamente.
– Hai visto? Sangue dappertutto.
– Sì, ma lui aveva ancora la pistola in mano, ha anche ferito un carabiniere.
– Ma chi era? – chiese la barista evidentemente ancora poco informata.
– Era il Mario del terzo piano, quello che chiamavano Sugamann. Poveretto, che brutta fine, ma se l’è cercata, era un “malnàtt”, un poco di buono…
Aveva sentito abbastanza. Armando, trattenendo la lacrima calda che spingeva per uscire dai suoi occhi, ritornò verso la fermata del 33. Casa sua lo aspettava.
Le mani morbide della massaggiatrice passavano sicure sulla sua schiena. Armando, seduto bocconi sul lettino candido del resort di Acapulco, se le godeva. Era bella, la ragazza. Se fosse stato più giovane un pensierino lo avrebbe fatto.
Non a caso aveva scelto quella città, l’ispirazione era stata “Messico e nuvole” di Jannacci. “La faccia triste dell’America”, in effetti forse un po’ triste era. Ma in fondo non era colpa sua. Al gioielliere aveva sparato Sugamann, lui faceva solo il palo, questa volta un palo serio, non come nella canzone. E il suo complice lo aveva ammazzato un carabiniere. Lui che responsabilità aveva? Perché non avrebbe dovuto godersi i soldi della rapina? Il suo cervello ne era totalmente convinto. La sua anima invece no.
“Messico e nuvole
Il vento suona la sua armonica
Che voglia di piangere ho.
Messico e nuvole
La faccia triste dell’America
Il vento insiste con l’armonica
Che voglia di piangere ho”
E infatti, proprio sotto gli esperti polpastrelli della ragazza, il suo vecchio cuore diede un ultimo battito, poi si fermò.
“Nanca una piega lu l’ha fa, nanca un plisse’”.