Il giorno giusto
Gabriella Gera
Questo piccolo appartamento in riva al mare mi entusiasma; generalmente sono in spiaggia a godermi le vacanze dalla città, ma quando resto in casa amo stare alla finestra, a guardare le onde incresparsi e il sole calare con lentezza. E’ l’ultimo weekend, poi torneremo a Milano e io riprenderò la scuola come sempre.
E’ mattino presto ma il vocione di mio padre mi ha svegliato, peccato, sognavo di nuotare al largo, tra pesci dai colori vivaci che mi circondavano festanti, trasmettendomi una sensazione di pace.
Ma sento ancora mio padre: Alzati Peppì prendi l’aquilone, guarda che vento fuori. Fuori non c’è anima viva, è troppo presto, credo che anche i pesci stiamo dormendo…
Non ho nessuna voglia di alzarmi, ma disobbedirgli è impossibile, per cui prendo l’aquilone e usciamo.
Mamma non viene?
Ma figurati – risponde in tono di disapprovazione – quella dorme.
Capisco che non vuole sentir ragioni, vuole uscire e probabilmente il mio aquilone è solo un pretesto. Infatti non mi ascolta nemmeno, mi spinge fuori dalla porta e ci incamminiamo. Siamo a due passi dal mare e soffia un bel vento in un cielo magico che è appena passato dalla notte al mattino.
Ho 12 anni, ma mio padre a volte mi tratta come se ne avessi 8. Non sempre però: quando lui la sera esce per i fatti suoi senza nemmeno dirci dove sta andando, improvvisamente divento il figlio unico grande e responsabile abbastanza per aiutare la mamma a sparecchiare, lavare i piatti ecc.
Ma che bella giornata: il rinato sole e questo meraviglioso venticello mi rasserenano l’anima, allora prendo dalla mano di mio padre l’aquilone e comincio a correre sulla spiaggia. Non c’è nessuno, è già settembre e oltretutto è mattino presto, è normale che ci siamo solo noi.
Rifletto che oggi può essere il giorno giusto.
L’aquilone vola che è una favola. E’un allegro farfallone variopinto che ondeggia e vibra nel vento, sembra vivo, pare un animale felice. Libero.
Aò Peppì non andare lontano. Non ho voglia di correre.
Si distende sulla sabbia in riva al mare e rimane ad aspettarmi. Io corro e ogni tanto getto lo sguardo indietro, mio padre è sempre più lontano. Arrivo poco distante da un
piccolo e appuntito faraglione e mi butto in acqua per raggiungerlo, sempre con il mio aquilone farfalla che vola ormai alto nel cielo.
Ogni tanto mi giro a controllare mio padre, lo vedo disteso sulla sabbia; i vestiti appoggiati a lato e lui in costume, disteso ad aspettare il sole. E’ un bell’uomo, soprattutto ha un viso affascinante, i capelli ricci, gli occhi scuri, le sopracciglia folte. Posso capire che piaccia alle donne. Non è alto, più basso di mamma, e ha un fisico piuttosto magro, anche se la pancetta con gli anni si sta facendo più evidente. Io ho preso il fisico più rotondo di mia madre. E da lei anche il volto magro, un po’ scavato e gli occhi chiari, malinconici.
Per un attimo, guardandolo lì disteso beatamente, mi assale un pensiero fastidioso: immagino che una donna, giovane e bella, gli si avvicini, gli si butti addosso, poi li vedo avvinghiati toccarsi e baciarsi. Scaccio via quell’immagine disturbante e, sempre con il filo dell’aquilone in una mano, arrivo in un punto dietro il roccione dal quale la figura di mio padre sembra molto più lontana di quello che è. Lui però non mi vede e allora io comincio a gridare. Forte, in modo che la mia voce lo possa raggiungere:
Papà papà aiuto! Aiuto!
Ma dove sei??
Vede finalmente l’aquilone e bestemmiando viene verso di me, cerca di correre ma si affatica: il troppo fumo e l’angina non gli permettono grandi sprint. E’ nero di rabbia:
Ma che cavolo, dove sei finito!
Sono qui dietro, l’aquilone si è ingarbugliato e ho un piede bloccato dietro la roccia. Aiuto papà!
Ma sei proprio uno stupido, ma come si fa.
Sento che si sta avvicinando, vedo la sua testa che mi cerca, i riccioli bruni e folti che si alzano e abbassano al ritmo della sua corsa.
Sono qui sopra – sussurro e in effetti mi trovo sopra uno sperone roccioso a qualche metro dal livello dell’acqua. Grazie al mio corso di arrampicata non mi è stato difficile arrivarci.
Ma che fai lì? Non riesci a scendere? – chiede lui, tra il rabbioso e il deluso.
Sono incastrato, devi venire qui. Ho un piede dentro una roccia.
E come faccio?
Tirando giù altre parolacce si inerpica per raggiungermi e quando è abbastanza vicino da poterlo guardare negli occhi gli sussurro: – Hai finito di fare male alla mamma.
Gli do una spinta forte verso un punto da cui sbuca un costone di roccia appuntito, non prima di aver visto uno sguardo di stupore e terrore nei suoi occhi.
Scendo poi piano, lui sta perdendo sangue. L’aquilone adesso pare un cavallo imbizzarrito, gira come un pazzo avanti e indietro nell’aria, il vento si è rafforzato e lui vorrebbe scapparmi via.
Mio padre si lamenta, ha la testa a un centimetro dall’acqua, mi basta poco per immergercelo.
Chiamerò i soccorsi con calma, quando sarà troppo tardi. Ho controllato, non c’è nessuno in giro e crederanno alle parole di un ragazzino disperato. Un fatale incidente. Lui ha voluto arrampicarsi, chissà perché, forse una specie di sfida con me.
Rivedo il viso di mia mamma di ieri sera, l’ennesimo sorriso falso e tristissimo, l’ennesimo livido violaceo sulla guancia, lo stesso terrore paralizzante e disperato che le ho visto in faccia altre volte. Troppe. E nessuno l’ha mai aiutata.
Prendo il cellulare che ho in tasca, comincio a comporre il numero, poi corro verso casa. L’aquilone nella foga si è sganciato e adesso vola libero nel cielo.
Libero.
Come mia mamma.