Il buco

Alessandra Cereda

L’ombra è rassicurante, per chi ha paura del buio. Mi avvolge soffice come la copertina che da bambina tenevo tra le dita. Non che adesso sia grande. I raggi solari arrivano di sbieco attraverso le tapparelle, formano una sottile scia calda, giallo scuro, che finisce per schiantarsi contro le pareti, dipingendo il profilo del mio corpo scheletrico. Allungo una mano nel vuoto salutando il nulla, solo per percepire di esserci ancora, per lasciare un segno del mio passaggio. Sono le 6.14 del mattino e quando quasi tutto ancora dorme la vita del mondo ti travolge più delicatamente. Delicata. Feroce. Ridursi ai minimi termini é una sorta di suicidio a lungo termine. Ho scavato nella mia stessa carne un buco profondo vent’anni, seppellendo di volta in volta porzioni sempre meno somiglianti all’involucro originario. Il referto autoptico farebbe risalire all’ego come causa della morte. Odio è l’arma del delitto. Un se stesso bastardo e vigliacco che si diverte a torturarti. La soddisfazione arriva quando arriva la sofferenza, un’espiazione di colpe non commesse che mi porto addosso. Ho fame di quella pasta allo zafferano del mio bar preferito a Milano, vista madonnina, invece sorseggio apatica acqua e limone acidissimo. Vedo allo specchio un riflesso distorto. Non mi riconosco. Evolvo di continuo. Dicono che in un anno la massa delle cellule ricambiate sia pari alla massa del corpo stesso. Sono nuova sempre. Uso il sentirmi sbagliata come motore al cambiamento perché se questo è vero, è giusto che ciò che sono già stata, io non sia più. Mi stringo forte e gli abbracci non mi sono mai piaciuti. Non fingo neanche indifferenza nel girarmi dall’altra parte perché, scusa le spalle, ma preferisco non guardare, che non è mica detto le cose esistano davvero, fino a quando non le vedi tu.