Giallo ricino: brutta avventura di un ventenne nel Ventennio

Ugo Perugini

Milano nel 1922 era una città tutt’altro che tranquilla. C’erano continui scioperi da parte dei socialisti. Avevano cominciato i metallurgici. Poi si erano aggiunte anche altre categorie. C’erano stati anche episodi di sangue. I soliti facinorosi avevano fatto un’imboscata presso la ditta Bottali, che costruiva strumenti musicali, e c’era scappato il morto, un operaio. I soliti benpensanti si lamentavano. Bisognava fare qualcosa per l’ordine pubblico. Non si può mica andare avanti così. Da qualche tempo, allora, ci si era abituati a vedere in giro su camion degli sfegatati che cercavano di mettere ordine in quella confusione anche a costo di usare violenza. E a certa gente la cosa andava anche bene. Purché i lavoratori fossero tenuti sotto controllo e la smettessero con le loro occupazioni che danneggiavano l’economia. Aurelio aveva appena compiuto venti anni. Finite le commerciali, si era messo subito a lavorare come operaio. I suoi genitori non avevano i soldi per farlo studiare. Ma andava bene così perché era convinto di fare un lavoro che gli dava comunque un certo prestigio. Era apprendista nella tipografia che pubblicava il “Corriere della Sera”. Non so se mi spiego. Aurelio sentiva che nell’aria stavano cambiando le cose. Ma non era preoccupato. Il 28 ottobre del 1922 aveva anche lui avuto un po’ di paura quando alcuni camion con a bordo dei ceffi in camicia nera si erano schierati davanti alla tipografia del “Corriere”. Cosa volevano? Lui non riusciva a capire. Ma lo capì qualche giorno dopo quando un po’ dappertutto si parlava dell’impresa dei fascisti che avevano marciato su Roma e occupato i ministeri. Insomma, questi non volevano solo intimidire la gente, ma stavano facendo sul serio. E il re aveva deciso di affidare il governo al loro capo, un tipo tosto, Benito Mussolini. Bene così, si diceva tra sé. A lui interessava che la vita andasse avanti senza troppi scossoni. Quel fervore politico che sentiva attorno a sé non lo capiva. Gli piacevano le ragazze, soprattutto quella biondina che ogni tanto incrociava la mattina quando lui tornava dalla tipografia e lei andava al lavoro. Una volta lui le aveva fatto un saluto togliendosi la coppola con un gesto da signore. E lei lo aveva guardato negli occhi e gli aveva sorriso. Si era sentito al settimo cielo e il cuore in tumulto. Qualche giorno dopo, aveva avuto anche il coraggio di fermarla. Parlarono per pochi minuti perché lei aveva fretta, ma si erano subito capiti. Una famosa canzone di Gill gli girava in testa: “Chi con le donne vuol aver fortuna, giochi d’azzardo, senza ritardo, con fatti e non parole”. Per questo ad Elena, questo il nome della ragazza di cui si era invaghito, comprò un anellino che le avrebbe regalato alla prossima occasione. Era contento Aurelio e su di giri anche se purtroppo nel frattempo aveva avuto un piccolo incidente al lavoro. Si era slogato una spalla scivolando in officina e faceva fatica a muovere il braccio destro. L’avevano spostato momentaneamente dalle presse alla preparazione dell’inchiostro e della carta. E lui pensava che forse tutto il male non era venuto per nuocere. Quell’imprevisto avrebbe potuto aiutarlo nella sua carriera in tipografia, magari favorendo il suo passaggio da apprendista a operaio qualificato. E chissà, in futuro, forse avrebbe potuto diventare anche compositore, il suo sogno. Nel frattempo, la situazione politica a Milano restava ancora piuttosto calda. Come avrebbe poi detto Mussolini, “il regno dello storico manganello non era ancora finito”. Venne incendiata la sede dell’”Avanti”, e non era la prima volta. In agosto, Palazzo Marino fu occupato e il poeta Gabriele D’Annunzio arringò alla folla dal balcone. Altro personaggio che Aurelio stimava, soprattutto perché correva voce che, come il duce, avesse successo con le donne. Comunque sia a Milano ovunque c’era una tensione palpabile e continuavano a girare sui camion ronde di giovani fascisti per mantenere la sicurezza, cantando le loro canzoni, compreso l’inno “Giovinezza”. Anche ad Aurelio era entrata in testa quella canzone. Non gli dispiaceva. La canticchiava e si soffermava su alcune parole che lui, chissà perché, abbinava al bel viso della sua amata Elena. Giovane e piena di vita.” Giovinezza, giovinezza, primavera di bellezza, della vita nell’asprezza il tuo canto squilla e va…”. E immaginava di averla a fianco, col velo in testa, bellissima, mentre lei e lui sottobraccio camminavano verso l’altare. Avere una casa tutta loro, avere dei figli… Piccoli desideri da piccolo borghese? In fondo, che male c’era? Una mattina Aurelio tornava dal lavoro fischiettando. Nella mano sinistra stringeva il cofanetto con l’anello che avrebbe voluto regalare alla sua Elena non appena l’avesse incrociata. Prima che ciò avvenisse sentì che dietro di lui si stava avvicinando un camion della ronda fascista. Ridevano e cantavano a squarciagola: “Fascisti e comunisti giocavano a scopone e vinsero i fascisti con l’asso di bastone!”. Aurelio si girò sorridendo verso di loro. Uno di essi, in piedi sul cassone gli intimò: “Saluto al Duce!”. Aurelio lo guardò e stava per rispondere ma il dolore alla spalla destra gli impedì di alzare il braccio nel saluto romano. Allora, prontamente alzò quello sinistro che aveva il pugno chiuso perché all’interno della mano conservava il cofanetto con l’anello che avrebbe voluto regalare alla sua Elena. Il fascista sul cassone, male interpretando il gesto, fece fermare subito l’automezzo dando un colpo secco con la mano sulla cabina del guidatore e con un salto atletico scese e si piazzò avanti ad Aurelio con fare aggressivo, seguito da altri due camerati piuttosto arrabbiati. “Vuoi fare il furbo, eh” gli urlò uno dei tre guardandolo negli occhi. Aurelio pensava ad uno scherzo e non rispose. L’altro camerata da dietro lo colpì con il manganello sulla spalla destra, quella ferita. Aurelio sentì un dolore lancinante. “Ma che cosa fate?” riuscì a dire con voce dolente. “Ci prendi per il culo!” urlò un altro scuotendolo per il bavero della giacca. Aurelio cercò di fermarli. “Si tratta di un equivoco. Io la penso come voi” gridò. Ma quelli non erano per niente convinti. “Se è così devi brindare al fascismo e al duce!”. Aurelio si guardò intorno smarrito non riuscendo a capire dove volessero arrivare. Una dei tre tirò fuori una bottiglia contenente un denso liquido giallognolo. E la porse ad Aurelio con un ghigno. “Bevi!” gli intimò. Aurelio esitava, cercò ancora di far capire che si stavano sbagliando. Era troppo tardi. Uno di loro gli aprì a forza la bocca e l’altro gli fece ingoiare un po’ di quell’olio di ricino, detto anche la “purga del sovversivo”. “Alla salute!” fece uno dei tre ridendo. Poi gli energumeni risalirono sul camion e se ne andarono tra risate e battute oscene. Aurelio aveva la bocca amara e cominciava a sentire nello stomaco l’effetto di quello che aveva ingurgitato. Se la sarebbe fatta addosso. Appoggiandosi al muro, si spostò dalla strada e si nascose dietro una siepe. Pochi minuti dopo, passò Elena. Pregò che non si accorgesse di lui e fu allora che sentì la prima scarica e maledisse il fascismo.