Fino a confondersi con il sole
Flavia Rampichini
Torno sempre qui per il mio compleanno; potrà sembrare strano che una come me voglia festeggiare in una stazione della metropolitana, ma è qui che ho visto lei per la prima volta, e da allora per me non esiste luogo più importante di questo. Era il giorno del mio ventesimo compleanno; stavo andando in libreria a spendere un buono regalo. Il giallo è sempre stato il mio colore preferito, fin da quando ero bambina, perciò con dei pantaloni giallo canarino aspettavo un treno abbinato al mio look guardandomi intorno golosa di sorprese. Fu così che la individuai, in piedi sulla banchina opposta, separate da due linee doppie di invalicabili binari. Capelli corti castani, maglietta fuxia, scarpe basse, zaino in spalla. Cos’aveva di speciale? Tutto. Cosa potevo capirne da quella distanza? Abbastanza. All’epoca ero dotata di due superpoteri: una vista certificata undici decimi (secondo me di più, ma avevano paura a metterlo nero su bianco), e un radar amoroso in piena attività. Mi innamoravo continuamente, a volte con esito catastrofico, ma qualche volta finiva in gloria; valeva la pena tentare. Ero così carica che avrei scavalcato il fossato che ci separava con un balzo. Ma non ero tanto pazza, nemmeno allora; optai per una corsa su per le scale, due gradini alla volta, dribblando la gente lungo i corridoi, e poi giù per le scale dall’altra parte. Arrivai giusto in tempo per salire dietro di lei nella carrozza del metrò che ringhiava il suo grido di partenza. Mi aggrappai a un sostegno per riprendere fiato, cercando qualcosa di sensato da dirle, ma fu lei a parlare per prima.
-Ti è caduta una roba- disse.
La fissai inebetita, poi mi chinai a guardare il punto che indicava ai miei piedi, dove in effetti giaceva il mio buono per i libri, stropicciato ma ancora utilizzabile.
Lo raccolsi e lo sventolai trionfante.
-Grazie- dissi, -hai salvato il mio regalo di compleanno.
-Davvero è il tuo compleanno? Auguri- disse lei, abbagliandomi con un sorriso tutto fossette, – però se devi andare in quella libreria, hai sbagliato direzione.
-Pazienza. Tu dove vai?
-Università.
-Posso accompagnarti?
Potevo. Potevamo anche passeggiare nei chiostri e raccontarci alcuni passi salienti delle nostre giovani vite; lei studentessa di filosofia fuori sede, coi genitori all’antica che non capivano le sue scelte sentimentali ed esistenziali, io cittadina da sempre, alla deriva tra amori di ogni genere, alcuni così devastanti che ogni tanto mi sembrava di scorgere tra la folla il viso di qualche ex che mi spiava con intenti vendicativi. Lei rise delle mie
paturnie e io espressi tra me il desiderio di farla ridere ancora e ancora mille volte. Assaporammo insieme i primi esaltanti momenti che seguono un colpo di fulmine; mai avuto uno così potente in tutta la mia vita. Non che fosse stata lunga, allora, la mia vita. Ma anche così era un evento atmosferico estremo, era come in un giorno di sole trovarsi all’improvviso nell’occhio di un ciclone. Quel vento ci faceva sbandare a più riprese, le nostre spalle si sfioravano continuamente, dandoci la scossa. Riparammo in un pub affollato di studenti, dove bevemmo a lunghi sorsi una birra leggera, inebriandoci di sguardi. Nemmeno toccammo le tartine stantie, che rimasero abbandonate al centro del tavolo, perplesse di tanta inappetenza. Alla fine la accompagnai ad un’altra stazione del metro, toccava prendere di nuovo due direzioni opposte.
-Non hai comprato i tuoi libri- disse lei.
-Fa niente- dissi io, -ho trovato te.
Mi persi nel suo sguardo blu notte; era come cercare il fondo di un lago alpino. Era alta esattamente come me, ed era così vicina che la sua forza di attrazione mi sbilanciava; non potevo fare altro che avvicinarmi ancora di più e baciarla. Sapeva di birra e di lucidalabbra; sapeva di un amore all’inizio con una voglia folle di crescere e durare.
Aspettai il mio treno in una di quelle stazioni noiose dove non vedi la banchina opposta; ma non mi importava. Il suo viso lentigginoso era stampato sulla mia retina, e continuai a contemplarlo mentre il mio sguardo si posava sul display che segnava un minuto d’attesa. E ancora vedevo lei e le sue fossette adorabili mentre il mio treno si annunciava con un urlo assordante, mentre mi avvicinavo alla linea gialla, mentre all’improvviso da dietro due mani mi premevano sulla schiena e mi spingevano forte, facendomi volare oltre la banchina, oltre la linea gialla, giù nel fossato. Il suo viso radioso fu ancora l’ultima cosa che vidi prima dello schianto.
-Che peccato- feci in tempo a pensare. O forse no, non pensai proprio niente. Ma era davvero un peccato, perché ero certa che fosse lei, quella giusta.
Ricordo un palloncino che avevo da bambina, dello stesso colore di questa stazione del metro. Uno di quei palloncini gonfiati a elio che si comprano nelle fiere. L’elio fa ridere, pare, se lo inali. Con tutto l’elio del mondo, non l’avrei vista ridere mai più. Così come non avevo visto più quel palloncino, che mi era sfuggito di mano ed era salito sopra la mia testa, sempre più lontano, fino a confondersi col sole.
Torno sempre qui per il mio ventesimo compleanno. Non sono andata oltre i miei vent’anni, non è più possibile per me. Lei sì, è andata oltre. Però so che non mi ha dimenticata. Conserva ancora quel trafiletto con l’assurda notizia, e il titolo ancora più assurdo.
“Uccisa a vent’anni da un innamorato respinto.”
Cos’aveva al posto del cervello il giornalista che ha partorito quel titolo? Come poteva essere innamorato di me quell’idiota che ha deciso di togliermi la vita perché non accettava di non potermi possedere? Chissà poi se l’avevo davvero respinto o era tutto un film nella sua testa, allora non potei vederlo in faccia e in ogni caso l’avrei dimenticato. Saltò fuori però che mi stava pedinando, probabilmente mi aveva vista con lei e aveva aspettato che restassi sola per uccidermi. O forse l’intento omicida era arrivato dopo aver visto che la baciavo. Ormai non ha più importanza, e comunque lo rifarei, la bacerei ogni volta, senza rimpianti. Tutto sommato le mie paturnie si erano dimostrate reali, anche se lei ne aveva riso. Lei sì però che era innamorata; altrimenti non sarebbe tornata qui, come me, ogni anno nel giorno del mio compleanno, guardando nella mia direzione con quel sorriso triste. Da quanti anni? Non lo so, ho perso il conto del tempo. Ma so che quando la vedo dal lato opposto della banchina mi sento esattamente come la prima volta; così forte l’impulso a starle vicino che potrei superare d’un balzo il fossato. Però non posso più raggiungerla, nemmeno correndo su e giù per le scale; lo spazio che ci divide ora è molto più vasto di questo tunnel coi binari. E quando sale sul metro devo guardarla andare via senza sapere se tornerà, se la vedrò anche il prossimo anno. Magari un giorno, spero per lei lontano, verrà a sedersi con me da questa parte. O forse non succederà mai, mi dimenticherà prima e allora anch’io smetterò di tornare, perché cos’altro mi è rimasto che mi leghi a questi luoghi?