Col Ghibli a favore

Lucia Bollina

Tirhas, ultima di sette figli, era una splendida rosa di maggio. I suoi fratelli, l’avevano portata a spasso per le vie dell’Asmara badando bene che nessuno le si avvicinasse troppo. Le sue sorelle s’erano divertite ad acconciarle i capelli e a dipingerle mani e braccia con l’henné. La sua pelle ambrata era sempre ricoperta da un pizzo virtuale. Il papà, originario di Massaua, ogni sera, le aveva raccontato del mare e lei, senza volerlo, se n’era innamorata. La nonna, con in testa il turbante verde smeraldo e la pipa all’angolo della bocca, le aveva letto il futuro negli anelli di fumo. Era stata proprio lei, con la benedizione della Madonna, a consegnarla, il 20 settembre del 1980, ad un destino di profuga che l’avrebbe dapprima condotta alle porte del Sudan e poi oltre. Sospinta fino al confine da una marea di gente in fuga, lo aveva oltrepassato senza quasi accorgersene. Tra facce sconosciute e sguardi perduti, era arrivata a Khartoum dove le era sembrato di poter tirare finalmente un sospiro di sollievo. Non aveva più le scarpe ma era giunta a destinazione! Così aveva gioito ma solo per un attimo perché, subito dopo, aveva compreso che l’esodo, quello vero, quello drammatico, non era neppure cominciato. Un tipo arrogante in tuta mimetica e fucile in spalla, che tutti chiamavano “il capo” aveva iniziato ad impartire ordini e istruzioni.
“Viaggeremo solo di notte per sfuggire agli assalti dei pirati!” Quella voce, dura e rabbiosa, non avrebbe mai smesso di riecheggiarle nelle orecchie. Stranita, aveva aggrottato le ciglia. Ma i pirati non andavano per mare? Quelli dei famosi galeoni, sì! Ma anche il deserto brulicava di gentaglia. Trafficanti d’uomo e guerriglieri senza scrupoli erano sempre on agguato, pronti a tagliare le gole. Meglio dunque tenersene alla larga.
“Viaggeremo di notte e di giorno ci nasconderemo!” Aveva ribadito con tono cavernoso. Poi aveva aggiunto. “Saremo gli invisibili!”
Tirhas era stata colta da un fremito. La prospettiva di doversi trasformare in fantasma non l’era piaciuta affatto. Per un attimo quell’idea le aveva fatto girare la testa. Il sole sopra di lei era una palla di fuoco che aveva incendiato il cielo. Dieci minuti più tardi, però, era calata la notte più buia, illuminata da centinaia di stelle che brillavano come diamanti. Sarebbe bastato allungare una mano per poterne cogliere una, stringerla forte e poi, dopo aver espresso un desiderio, soffiarla via dal palmo. Stava appunto abbandonandosi a quell’illusione quando la voce imperiosa del capo aveva squarciato le tenebre.
“Sbrigatevi a salire sui dromedari e, da questo momento in poi, cucitevi la bocca!”
A lei, che aveva ubbidito prontamente, era sfuggito un primo urlo. L’animale, sollevando le zampe anteriori l’aveva catapultata in avanti e se non era volata via era stato proprio per miracolo. Un attimo dopo, gliene era scappato un secondo. Stavolta erano state le zampe posteriori a farle perdere l’equilibrio. Il capo s’era infuriato. Le aveva puntato la canna del fucile alla tempia e le aveva sibilato. “Mettici in pericolo un’altra volta e ti faccio saltare il cervello!”
Al contatto col freddo metallo le s’era imperlata la fronte di sudore.
“Mi sono spiegato?” Le aveva domandato sfregandosi il naso e a lei non era rimasto che fare cenno di sì con la testa. In fila indiana, nel silenzio assoluto, la carovana aveva preso a marciare. Era stato un procedere lento e cadenzato. La splendida luce della luna aveva fatto scorrere nel deserto un lungo fiume argentato, messo lì a serpeggiare placido e luccicante. I raggi obliqui s’erano divertiti a proiettare ombre nere di giganti in cammino. Non avrebbe saputo dire se quello fosse l’Inferno oppure il Paradiso. L’alito caldo e profumato del Ghibli s’era messo a spettinare le dune ridisegnando uno scenario, immutato nel tempo, eppure diverso da quel che era apparso solo un attimo prima. I granelli di sabbia le si erano insinuati ovunque, se non avesse tenuto le labbra ben serrate avrebbe finito col mangiarli. Quel dondolare ipnotico l’aveva indotta a socchiudere gli occhi. Se non fosse scesa dal dromedario il sonno avrebbe di sicuro preso il sopravvento. Con un balzo era atterrata sulla sabbia fredda e poi aveva mosso i primi passi. Qualcuno le aveva intimato di risalire in fretta. Gli scorpioni! Bastava una loro puntura per finire dritti al creatore. Ma lei aveva proseguito. Indossava la cavigliera che le aveva regalato la nonna, una sottile catenina alla quale era legato un piccolo campanello il cui suono avrebbe tenuto lontano la cattiva sorte. Senza paura quindi aveva continuato a marciare. Poi le gambe avevano cominciato a dolerle. Bisognava risalire sul dromedario ma come fare? I tentativi maldestri avevano finito con l’innervosire l’animale. Ne era seguito un parapiglia che aveva fatto accorrere il capo. A voce bassa, ma con il medesimo tono rabbioso, aveva chiesto spiegazioni. Grazie a Dio, un uomo aveva detto una bugia per lei.
“Quel dannato dromedario s’è scrollato di dosso la ragazza e poi ha cominciato a fare il diavolo a quattro!”
Nel cielo d’inchiostro era riecheggiato il suono secco di una frustata. La bestia aveva abbassato il muso e, mansueta come un agnellino, s’era accovacciata. Tirhas era riuscita, finalmente, a risalire sul trono. Con le mani strette intorno alle redini aveva assecondato quel bizzarro ancheggiare poi s’era rassegnata al trascorrere lento del tempo. Le stelle, stanche di stare a guardare quell’impresa appena cominciata, s’erano spente una ad una. Il cielo s’era tolto dalle spalle il pesante mantello nero. Incredibilmente, la prima notte nel deserto era passata! Una notte vestita a festa durante la quale gli zoccoli dei dromedari avevano iniziato a scrivere sulla sabbia una storia segreta. Il Ghibli, però, dolce e costante, aveva cancellato ogni traccia di quel passaggio proibito e clandestino, pieno di pericoli e ricco di speranze. Col suo soffio caldo si era lasciato indietro una distesa di dune vergine e inviolata. Come se nessuno fosse mai passato di lì.