Camminando
Bruno Bianco
-Mi scusi sa mica dirmi l’ora? Ho dimenticato a casa il telefono e oltre i problemi di quando ti manca quest’aggeggio non ho un orologio per governare la fine di questa maledetta giornata.-
Lui si era voltato tra lo stupito e l’infastidito che una sconsciuta lo fermasse in Piazza Duomo con una domanda così stupida; certo che è davvero un uomo affascinante e i capelli sale e pepe dei suoi sessant’anni lo rendono ancora più attraente.
-La ringrazio e mi scusi se l’ho disturbata.-
Intanto i miei occhi sono diventati lucidi e lui non può non notare le lacrime che annacquano il rimmel messo con tanta cura qualche ora prima.
-Si sente bene signorina? Forse è meglio che stia seduta un attimo prima di andare dove deve.-
-Non è niente di grave. Forse non è stata una buona idea girare da sola tutta Milano per lasciarmi alle spalle i segni di ferite troppo recenti.-
Le lacrime mi attraversano le guance e mi lasciano strisciate di rimmel dagli occhi fino al collo; ma l’importante è aver scardinato la freddezza di quell’uomo così affascinante.
-Prenda il mio fazzoletto; non le servirà per le sue ferite recenti, ma almeno la leverà dall’imbarazzo di farsi vedere in questo stato da un perfetto sconosciuto quale io sono per lei.-
Affascinante e gioviale; sono sempre più convinta di fare la cosa giusta. Lui si presenta e in pochi minuti ho già messo nella trousse di raso il suo fazzoletto sporco di rimmel.
Parliamo e camminiamo, camminiamo e parliamo. Prendiamo Via Torino come se fosse stato il destino a guidarci in quella direzione; passiamo la chiesa di Santa Maria e quasi senza accorgercene ci ritroviamo verso il Carrobbio. Tra una parola di circostanza e l’altra mi dice che anche lui oggi ha vagato in tutta Milano per lasciarsi alle spalle delle ferite recenti come le mie.
-Non si deve sentire in dovere di condividere i miei problemi, a maggior ragione se ne a già di suoi.-
-Mettiamola così. Vista la nostra età lei potebbe essere mia figlia e allora per dimenticare i nostri guai ci facciamo hamburger e patatine in questo McDonald che hanno messo apposta qui di fianco per intossicare il fegato e rilassare il cervello.-
E’ riuscito a farmi sorridere, ma gli ho dovuto dire che non me la sentivo di finire in mezzo a ragazzini rumorosi che si godono con pieno merito gli anni migliori della loro vita.
Parliamo e camminiamo, camminiamo e parliamo. L’oscurita della notte ha già coperto tutte le vie, mentre le luce della luna piena ci indica le Colonne di san Lorenzo
-Capisco che il McDonald fosse troppo da ragazzini, ma qui abbiamo il mitico Tutti Fritti. Ci prendiamo qualcosa da bere e andiamo sulla piazza in mezzo a giovani e meno giovani che come i ragazzini anche loro si godono con pieno merito gli anni migliori della vita.-
Gli confesso che non mi va proprio di incontrare gente, di vedere luci, di sentire musica. E lui capisce; capisce che mi va solo di parlare e camminare, camminare e parlare.
Corso di Porta Ticinese mi sembra infinito, Sarà per la lentezza dei nostri passi o per la pesantezza dei miei pensieri, ma strada scorre davvero lenta sotto i nostri piedi.
-Lei è stato molto gentile, ma si è fatto tardi e credo che andrò a casa a farmi una bella tisana di passiflora.-
-Non posso permettere che lei faccia ritorno a casa da sola in piena notte. Fino al quando non sarà nel suo appartamento con in mano una tazza di calda tisana alla passiflora, io non abbasserò lo sgurdo dal portoncino d’ingresso del suo palazzo.
Credo che uomini così non ne esistano più, sempre che ne siano mai esistiti; parliamo e camminiamo, camminiamo e parliamo.
Da piazza Ventiquattro Maggio prendiamo viale d’Annunzio fino alla Darsena e complice l’ora tarda in giro non c’è proprio più nessuno.
-Sono le tre di notte! Saremo anche due anime in pena, ma direi che la serata può finire così.-
-Se le andasse, domani sarei davvero lieto di pranzare con lei.-
-In questo momento non me la sento di prendere impegni per la cena, figuriamoci per il pranzo. Se vuole però mi lasci il suo numero di cellulare; prometto di chiamarla prima di mezzogiorno.-
Apro la trousse di raso anche se so bene di non avere dentro né la biro né un foglio di carta, ma tanto immagino che sarà così premuroso da pensare lui sia al foglio sia alla biro; scrive il numero sul biglietto e quando me lo consegna mi è davvero vicino, mentre i suoi occhi mi lanciano uno sguardo che sa essere allo stesso tempo paterno e sensuale. Io continuo ad armeggiare nella trousse, ma sento che ormai ho deciso; la sua faccia mi è vicina, i suoi occhi mi sono vicini, la sua bocca mi è vicina…
Mi sveglio che la mia camera è illuminata dal sole avanzato del mezzogiorno; non ricordo di essermi svegliata così tardi. I miei vestiti sono sparsi per tutto il pavimento; faccio la doccia e mi vesto con una lentezza che non ricordo di avere mai avuto. Prima di uscire ho ancora un’incombenza da fare. Apro la trousse di raso e mi assicuro che dentro ci sia ancora lo spray con l’etere; gliene ho fatto respirare più di metà, come quando continui a spruzzare l’insetticida sullo scarafaggio anche se vedi che è già completamente stecchito; d’altronde per prenderlo di peso e buttarlo nel naviglio al di là del parapetto non potevo permettermi che fosse tanto sveglio. Ma sono soddisfatta perché prima che crollasse de tutto gli ho urlato nelle orecchie il mio nome in modo che capisse bene chi ero; poi la luna ha illuminato quel corpo che nel vuoto ha fatto quattro giri su se stesso prima di sbattere sull’acqua dura del naviglio.
Il primo è per tutte le volte che è entrato nel mio letto dicendo che la mamma era contenta che lui mi mettesse le mani dentro le mutandine.
Il secondo è per tutte le volte che è uscito dalla mia stanza per rientrare nel letto della mamma e fare l’amore con lei, lei che pensava quanto era stata fortunata ad aver trovato un uomo così affettuoso dopo un matrimonio tanto disgraziato.
Il terzo è per tutte le volte che si è ripetuto con altre bambine di dieci anni, figlie di donne vedove o divorziate, sedotte da un uomo che quando si stufava delle figlie non aveva più nessun motivo per restare con le madri.
Il quarto è per me. Per me e per tutte le volte cheho dovuto aspettare in questi vent’anni. Perché non vale la pena di finire in galera per aver schiacciato uno scarafaggio e siccome il delitto perfetto non esiste devi avere la pazienza di aspettare l’occasione buona che nella vita prima o poi arriva. Perché nella vita prima o poi le cose vanno sempre a posto a questo mondo.
Esco dal palazzo e vado verso il naviglio; apro la trousse di raso, prendo la bomboletta di etere e la butto nell’acqua. Mentre chiudo la cerniera vedo il biglietto con il suo numero di telefono. Lo prendo e inizio stracciarlo con ordine e rigore, in due, in quattro, in otto; poi apro il pugno e i ritagli iniziano a cadere nel vuoto, oscillando con precisa lentezza. Resto a guardare fino a che anche l’ultimo coriandolo non scompare nello strato più profondo del naviglio; chiudo la trousse e sorrido.
La prima parte della mia vita, quella passata annegando nelle onde dure del fango, finisce; adesso inizia la seconda, quella che scorrerà sull’acqua morbida del naviglio.
Camminando e parlando.