Anni Venti graffiti ruggenti

Carlo Battaglini

Da mesi sono in guerra con un ignoto imbrattamuri impegnato a prendere di mira il mio palazzo, comprensivo di pareti intonacate e serrande delle autorimesse, tutte affacciate sulla via e tutte gialle, a quanto pare una vera e propria carta moschicida per ogni mentecatto con una bomboletta di vernice in mano.
Oltre a lavorarci come portiere, qui ci abito, quindi sono sempre reperibile per coprire le imbrattature.
Sospiro. La latta di vernice gialla è a metà, usata per celare l’esistenza di quegli psicopatici che offendono l’onesto grigio dei muri di Milano, che sono, anzi erano, molto più artistici di tutto questo strillare ci sono anch’io; perché questi minorati pure li firmano, i loro scarabocchi, come all’asilo, dove qualsiasi sgorbio porta in calce il disgrafico nome del suo autore. E il mio imbianchino deve avere un bel problema, o addirittura un brutto dramma, se per dichiarare la sua identità dispone solo di una S verde e di una O viola, da lasciare di notte con uno spray. Chissà chi l’ha messa in giro questa idea che ognuno debba essere qualcuno. In ogni caso, cancellati i graffiti per l’ennesima volta, ho deciso che non ce ne sarà un’altra. Da varie notti dormo nell’autorimessa, per cogliere l’imbrattatore sul fatto. Voglio interrompere l’insopportabile mostra di ali di uccello senza uccelli, dipinte dal demente tarato dalla sindrome dell’identità.
Sto sonnecchiando quando sento arrivare da fuori un sibilo ovattato e prolungato: il rumore di uno spray. Quello che l’anonima nullità vuole destinare alla mia saracinesca.
Esco dal retro. In un attimo sono in strada, a venti metri dall’ignoto artista accucciato. Gli arrivo alle spalle. Ha un ciuffo paglierino al centro della nuca, e un giubbotto di pelle nera, secca e crepata dall’uso.
In mano tengo una spranga, e il tipo che se la ritrova puntata sulla schiena si spaventa come se fosse una pistola. “Cazzo vuoi?”, gorgoglia sforzandosi di divaricare i suoni.
E’ una ragazza. Non me l’aspettavo. “Che cazzo vuoi tu”, ribatto. Il dialogo più confacente per due disadattati su di un marciapiede, quando non si sa se è troppo tardi o troppo presto.
Lei si alza tenendo il volto sul muro. Alla luce del lampione, i capelli attorno al ciuffo giallo appaiono verdastri, forse sottoposti a uno spietato esperimento di colore e stiratura che li ha trasformati in un praticello sfibrato.
“Chi sei?”, chiede.
“Sono un amante dell’arte… Sei tu a fare quelle ali con la S verde e la O viola?”
“No. Io dipingo fiori”.
Questa poi… Volevo prendere il pittore di ali, e invece, ecco che mi cade addosso un’artista del floreale. “Hai studiato arte?”
“No. Perché?”
“Perché le vostre pitture fanno cagare. Tutte. Sono così penose da aver reso indecente Milano”.
“E che ne sai?”, sbotta la ragazza. “Tu te ne stai nel tuo bel palazzo in centro. Indecente è vivere nei lerci casermoni popolari”.
Butto un’occhiata alla serranda. L’avessi fatto prima avrei visto l’abbozzo fresco di una S verde, anche se si nota di più il fregio pisciato da un cane sul muro. Questa graffitara errante fa l’ambasciatrice delle periferie degradate, ma nega le sue opere prefirmate sostenendo di fare fiori. Non so se sentirmi incazzato, o fregato. Però mi sento stanco, quello sì.
Sul bordo della serranda qualcuno ha scritto, in piccolo, col pennarello, fanculo tutti. Mica solo artisti, è pieno pure di fini dicitori qua in giro. Anche se le pisciate di cane sono più espressive nel segnalare le esistenze. Parecchie esistenze. Sovrapposte. Ci vorrà lo scalpello per estirparle dal muro. “Prima almeno questa città si vergognava se faceva schifo”, mugugno, “Ora ne sembra felice, per colpa dei vostri orribili spruzzi”.
“E tu… non sei orribile?”
Bella domanda. Soprattutto se viene da chi ha esordito con un cazzo vuoi, e ha avuto come ribattuta un che cazzo vuoi tu. “Sono orribile anch’io, ma me lo tengo per me”.
“Io non tengo nulla per me. Io voglio esistere. Voglio rendere tutti consapevoli di quanto accade nel mondo. E’ importante per il futuro”.
Questa qui vuole che tutti siano consapevoli. E vuole esistere… Sarebbe già abbastanza imparare a vivere, ma no, lei vuole esistere. Come può essere venuto in mente, a una col ciuffo giallo, un qualcosa di così patetico? “Se usare la parola futuro serve a non pensare al presente, sarebbe meglio abolirla”, bofonchio. “Tanto il futuro arriva lo stesso, e voi giovani ormai fate battaglie alle quali si fa solo finta di partecipare. E sai cosa ti dico? E’ meglio così, almeno non dovrete più sentire il ritornello stanco di chi sostiene di pensare al vostro futuro”.
“Tu non vuoi pensare al futuro perché ne hai paura…”
“Non ho voglia di pensarci. Dillo tu se ti fa paura il futuro”.
Allarga le mani. “Non so… ma dobbiamo inseguirlo, e prometterlo a noi stessi, e… disegnarlo”.
Ma sentila. “E va bene; disegnami un fiore allora”, ordino abbassando la spranga.
Lei si gira.
Visto dal davanti, il ciuffo giallo in mezzo al cranio stride come un fendinebbia in una camera oscura. Il viso è più o meno quello immaginabile da dietro, compresi i suoi venti anni e il suo piercing al naso, ma non mi sarei mai aspettato i suoi occhi verdi, e uno sguardo così innocente da mettermi a disagio. “Disegnami un fiore, t’ho detto! Fammelo bello, che profumi… Disegnane tanti, dai, cambia un po’ questa rassegna d’arte che ho il culo di ospitare”.
Lei abbassa lo sguardo, costringendo il ciuffo giallo a penzolare sulla fronte. “Io non so disegnare fiori. L’ho detto solo per tenerti buono. So fare solo ali e firmare con S e O…”
Rialza la testa. Lo sguardo smeraldino riprende il posto del ciuffo giallo. Incredibile che appartengano entrambi allo stesso spettacolo. “E va bene… spiegami un po’ cosa vuol dire quella esse con la O”, dico.
“Esse e O… So. Nel senso che sono consapevole, che lo so… Questi sono gli anni in cui si sta smettendo di fingere che vada tutto bene”.
Lei lo sa. Tritura i coglioni da mesi, e alla fine tira fuori un presente indicativo. “D’accordo… E le ali?”
“gli uccelli rappresentano un ambiente che sta scomparendo. Perderli significa suicidarsi. Se le ingiustizie sono aumentate e la Terra sta morendo non è un caso, ma il risultato di precise scelte, che vanno combattute tutte insieme da tutti”.
E’ sorprendente come certe convinzioni facciano scordare il rischio di prendere una sprangata in testa. Guardo lungo il marciapiede le sovrapposizioni di piscio impiastricciate con la polvere grigia dei muri. Grigia. Come è sempre stata questa città. Ma cosa sarà successo, poi, a Milano, che tutti, tutto a un tratto, hanno cominciato a fare i pittori di pitture del cazzo. Che tra un po’ non verranno più via neanche a cannonate. E nemmeno le pisciate di cane.
Vorrei dirle che siamo programmati come siamo programmati, che ci penseremo in un altro momento, ma quegli occhi mi scandagliano l’anima estirpandomi dalla gola ciò che non avrei mai pensato di dire: “Te li faccio io, i fiori…Mi vengono bene i girasoli…”
Lei sorride. Gli occhi verdi si impossessano del suo viso e relegano il ciuffo giallo a un ruolo sempre più secondario. Tira fuori dal giubbotto una bomboletta dopo l’altra. Scuote la testa: “Quella gialla non ce l’ho…”
“Lassa stà… Ce l’ho io, il giallo”.