Venti che cambiano
Giovanna Pugno Vanoni
Vari anni fa, ben di più che circa venti, incominciai a domandarmi come si potesse riuscire a superare l’ostacolo della pagina bianca.
Era un problema insormontabile. Come riempire il vuoto? Nella testa, i pensieri si affastellano; cresce l’ansia; le dita si muovono invano. Un passo avanti e due indietro. No! Non va bene! Il foglio è accartocciato, appallottolato e «via!»: si ricomincia da uno nuovo. La videoscrittura è, se possibile, più snervante: lo schermo ti illumina sempre e sembra minacciarti quando cancelli tutto nella speranza che arrivino idee migliori. Non puoi – ahimè! – ridurlo a piccolo ammasso sferico; ti accontenti dei piccoli suoni della tastiera e di vedere il cursore che indietreggia e ricrea lo spazio… abbagliantemente e inesorabilmente bianco.
Non si trattava di un compito di scarsa importanza. Perché impiegare tempo e risorse proprie e altrui? Perché gettare dei segni? Perché volere che siano còlti da qualcuno? Perché riconoscersi in un codice – crearlo, a volte – e tessere una rete con l’altro, fisico o immaginario che sia, singolare o plurale, persona, animale o entità, presente o passato, contemporaneo o futuro, vicino o lontano?
Travolti da un insolito destino, le lettere, i segni e gli spazi incominciarono a materializzarsi, a porsi sul foglio e a concatenarsi. Meno male che sono solo ventisei caratteri! Mari e oceani di biblioteche; letterature di ogni epoca e paese; di ogni genere e forma. E linguaggi, testi, trasmissioni: fiumi di lettere e cifre… Quasi ogni punto del globo terracqueo è colpito dalle parole e quasi intriso di messaggi.
I risultati furono e sono sotto gli occhi di tutti. Una Babele di voci! E la guerra, perché «come comunico io non comunica nessuno» e «se sei dei nostri, hai il nostro codice e sei contro di loro, che hanno un codice diverso – dobbiamo, poi, sottrarglielo».
Con la scrittura la vita sulla terra è stata forse più facile. Almeno per i gruppi che condividevano il linguaggio e il codice della comunicazione. Assumere i farmaci senza poter leggere il bugiardino sarebbe più complicato perché si dovrebbe ricorrere tutte le volte ai dottori e ai farmacisti. Per non trascurare gli affari: i contratti, da che mondo è mondo, di ogni forma e tipo, sono spesso scritti. E che dire dei sentimenti? Che ne sarebbe della nostra vita senza poter… graffiare il foglio?
Hotel ‘Caratteri dell’alfabeto e segni di punteggiatura’: qui c’è tutto l’occorrente. Purché si parli la stessa lingua, si aprono sconfinate praterie. In fondo, poi, ciò che conta è sfidare il tempo e garantirsi una porzione, la più ampia possibile, di immortalità. Così, nel 1595, il poeta inglese Edmund Spencer, in ‘One Day I Wrote Her Name’: ‘My verse your virtue rare shall ethernize and in the heavens write your glorious name’, perché l’onda del mare si ostinava a cancellare il nome dell’amata, scritto sulla sabbia dal poeta. E così, tra gli altri, il nostro Ugo Foscolo, nel 1806, ne I Sepolcri: ‘La poesia vince di mille secoli il silenzio’.
Evidentemente c’è la necessità di comunicare e di lasciare il testimone. Di scrivere, prima ancora di essere letti. Esprimere, esprimersi: premere fuori quello che abbiamo dentro. C’è cosa più difficile? Al tempo stesso, c’è cosa più urgente?
Certo, già decine di migliaia di anni fa, nelle grotte di Lascaux, l’arte ha raggiunto vette altissime. Poi, per rimanere in quel tratto di mondo che chiamiamo ‘Occidente’, probabilmente i Fenici per esigenze di commercio inventarono le consonanti dell’alfabeto e i Greci sembra vi abbiano aggiunto le vocali.
A noi non sfugge che scrivere sia un’arte. E che arte!
Mi piace pensare con Galileo al grande libro dell’universo scritto in caratteri matematici. Perché, se è vero che c’è un legame tra quello che è scritto e quello che è reale – beh, non proprio tutto… -, allora vengono i brividi! Siamo collegati! Forse c’è un senso! Ci sono meccanismi e dinamiche che ci superano e che magari ci innalzano!
Benevolmente, dunque, si dia inizio al nostro racconto.
Il giornale ‘Il Veneto’ del 13-14 dicembre del 1922, a pagina 3, reca un trafiletto dal titolo ‘Una signorina laureata in Ingegneria’.
A me e ai miei cugini piace ricordare che fu tra le prime donne laureate in Ingegneria in Italia nel 1922, all’Università di Padova, dopo essersi immatricolata e aver studiato i primi anni al Politecnico di Milano.
Non che il fatto che sia stata mia nonna sia rilevante. È stata la mamma di mia zia Rina, di mio padre Francesco e di mio zio Vittorio. Antenata e prozia di tantissimi nipoti, tra cui vi sono due medici, due ingegneri, un matematico e un architetto. Nell’amore con il marito Enzo, ha gettato le basi di una famiglia milanese, che ha attraversato il Fascismo e la guerra. Rimasta vedova giovane e con tre figli da mantenere contribuì come tanti alla ricostruzione postbellica.
Oramai il dado è tratto e «chi si loda s’imbroda». Tuttavia, nella scatola dei ricordi di casa, tra le fotografie e i ritagli di giornale, si legge: ‘Con pieni voti per esami, frutto di lungo studio e grande amore, ottenne la laurea di ingegnere civile ed elettrotecnico la signorina Gianna Alocco del cav. ing. Vittorio. A questa figlia eletta del nostro insigne Ateneo, per vivacità di ingegno e per nobiltà di pensiero ammirabile, a questa gentile fanciulla educata con distinzione ai più elevati esempi di famiglia, non mancherà quello splendido avvenire che tante e rare virtù fanno sicuramente presagire. Le nostre più vive felicitazioni’. Perché scrivere?