Quando soffia il vento

Rachele Micalizio

Dicono che il grano si pieghi al vento quando questo soffia.
Io non lo so, né lo potrò più vedere.

Un tempo, un’altra vita fa, vestito di giallo come il sole nascente, suonavo il flauto traverso e sognavo nuovi inizi gaiamente colorati di vita. Ricordo la bellezza dell’alba nuova, piena di rosso scarlatto, indaco, violaceo, rosa chiaro e scuro, giallo oro e senape e canarino nel colorarsi progressivo del sole. Ricordo lo spartito conosciuto e amato sotto gli occhi, le note che fluivano e io che ad occhi chiusi sognavo; chissà, forse vedevo colori nuovi dietro le palpebre nell’euforia dei miei vent’anni d’artista. Ora il mio mondo è vuoto.
Chi dice che nella mancanza della vista si veda nero sbaglia: si vede senza colori, ma ciò non significa nero. Significa solo la mancanza atroce.

Talora sento le voci, alcune compassionate altre invidiose quasi. “Perdonate, è cieco, non può vedere…” “oh mi dispiace…” “ma almeno è vivo” “eh sì, è stato fortunato, lui”. Fortunato mi chiamano, fortunato io che non vedo ma sono vivo; lo sono, eppure vorrei morire. I miei compagni mi chiamano, a volte, nelle notti fredde e nelle notti calde, poco importa loro ormai del tempo. Anche se non vedo, conosco i loro volti e le loro figure e piango con questi miei occhi inutili di cieco. “Andreij… Pavel… Piotr… Sergeij… Aleksandr…” ognuno avanza silente e mesto, gli occhi che come i miei non vedono più nulla eppure camminano ancora, ognuno segnato orribilmente per sempre.
Il peggio è quando riaffiorano prepotenti i ricordi piegandomi alla loro mercé. Allora sono in buchi sbocconcellati da pioggia, fango, neve, e gli elmetti tedeschi là, lontani, chiodi e noi tutti imitazioni di Cristo. Le fucilate rade quasi di preavviso e le rare trincee, le cariche di cavalleria e noi fantaccini a saltare urlando e si diventa belve allora. Gli shrapnel sibilano e miagola arrabbiata la mitragliatrice. Il cervello sciaguatta nel cranio. Uomini cadono. Il vento ulula e piange tra i pochi radi alberi stanchi, laggiù tra la neve a stento illuminata da un pallido sole. In fondo morire nel freddo non sembra poi così brutto, ho pensato più volte mentre ero di sentinella. E infine, gioioso, orrendo, il giorno che dissero “la guerra è finita!” Ci abbracciammo, bevemmo fino a vomitare, camminammo verso casa pensando “è finita, la guerra è finita, mai più gelidi venti incrostati di morte!”. Che sciocchi. Poveri, poveri sciocchi. Nulla sapevamo noi del futuro orrendo che si iniziava allorché lo zar venne deposto in quel tragico anno.
Né sapevano gli altri dei venti micidiali della guerra civile. Là, sotto il vento che soffia impetuoso, giacciono fratelli ancora con le armi in mano l’uno per l’altro. Il cavallo dal pelo ispido vicino a me e poi a terra agonizzante, che nitriva terrorizzato. Le patate congelate miste ai vermi: “ma è cibo, su, coraggio Pavel, mangia”. Ma Pavel aveva i piedi congelati e negli occhi verde – azzurro non c’era niente. Era l’ultimo, ormai, del nostro gruppo di amici e camerati: Piotr era finito sotto uno shrapnel e di lui ritrovammo solo uno stivale con un piede dentro, Sergeij s’era accasciato esausto per la dissenteria e il freddo e non ci riuscì di risvegliarlo, Aleksandr aveva perso le gambe e s’era dissanguato, Andreij per primo: infezione. Gli avevano amputato il braccio, poi ancora su fino alla spalla, ma ormai non c’era niente da fare. Ci aveva impressionato vedere la carne simile a molle cera giallognola, i denti che protrudevano, gli occhi spenti, le ombre nere in volto.

Ecco i nostri vent’anni gloriosi. Terra, sangue, fango, freddo, fame.
Vent’anni persi.

Sognavamo di diventare poeti, musicisti, chimici, medici, scrittori. Avevamo una famiglia, degli ideali, qualcuno addirittura una ragazza; tutti un’ingenuità distrutta dalla prima nevicata sulla terra di nessuno scesa a coprire i cadaveri e congelare i vivi. Combattevamo una guerra di movimento, non una Sitzkrieg, come dicevano quei dannati appena pochi anni fa: adesso tacciono. Penso a mia madre, che parla quella lingua, agli insulti che ha ricevuto per essere una ‘sporca puttana tedesca’. Anni e anni di vita in questo paese dimenticati in un attimo.

Fuori ulula il vento come allora in quella notte. Si era d’autunno e si doveva balzare all’attacco su una compagnia di menscevichi: li sentivamo ridere ogni tanto, e noi stringevamo le armi in pugno pensando al momento di attaccare. Il vento ululava e ci strappava perfido la pelle, alleato dei menscevichi nel farci soffrire. D’un tratto il comandante ordina l’attacco, io balzo in piedi, comincio a correre, vedo un lampo bianco, un dolore accecante agli occhi. Barcollo. Cado.

Quando mi ripresi, ero sdraiato e una mano mi lavava piano il collo. Ricordo che mormorai qualcosa, che la voce rispose ma non capii appieno, che io chiesi ancora perché tutto fosse oscurato e che la voce esitò. “Cieco” disse poi semplicemente, e davvero era tutto lì. “Cieco”. Avrei voluto piangere fino ad addormentarmi. Ma non ci riuscii.
Vent’anni.
Ed ero cieco.

Adesso le mie mani suonano esitanti note che ormai posso solo ricordare a stento. Mia madre mi chiama esitante “Vanja…” stringo i denti. “Vanja… “tento di capire da dove parli, ma non ci riesco. Frustrato getto per terra il flauto e mi allontano. Cosa rimane di me ora? “Vanja…” dice ancora, dolce e mesta, mia madre. Cosa rimane dei miei vent’anni?
Eccoli qui i miei vent’anni, l’età gloriosa del cominciamento di ogni cosa, dell’amore, della vita, dei sogni, delle ambizioni. Ho mani che non sanno, che non possono più fare. Solo il cuore, stupido, batte ancora. Dasha, dolce come il suo nome, vorrebbe che io cominciassi di nuovo, che suonassi un poco per lei, che è poi la ragazza della porta accanto e poco mi conosce. Talvolta acconsento. Taccio allora e nel silenzio lascio che le ultime note si dissolvano tra di noi come carezze che non saranno mai date.

E un giorno soffia ancora il vento, come soffierà sulle distese laggiù, sui morti, su Pavel e Sergeij e Andreij e Aleksandr e Piotr e i miei occhi e i nostri vent’anni. E soffia mentre Dasha mi accarezza esitante il petto prima di baciarmi, e soffia ancora mentre gemo nel suo abbraccio, e soffia ancora mentre finalmente lo spartito acquista di nuovo senso, e soffia ancora infine mentre riesco a suonare sentendo sotto le dita le note ora macchiate di lacrime.

Il vento non smetterà mai di soffiare sulla mia giovinezza perduta, ora che sono ormai consumato dal tempo lo so. Ma un giorno, quando morirò, forse, riavrò i miei occhi e potrò per la prima volta contemplare il volto di mia moglie e dei miei figli.
Vent’anni sono pochi per morire.
E sono ancora vivo: non ho più paura.

FINE.