I culi all’idroscalo

Federico Bagni

“Andiamo a vedere i culi all’Idroscalo?”
Il Peverelli l’ha buttata lì così. Poi ha ricominciato a mescolare lo zucchero nel cappuccio.
“Di quali culi parli?” gli ho chiesto, dal tavolino sbilenco che il Tony piazza su questo marciapiede sbrecciato di periferia. “Intendi i culi delle ventenni o i culattoni?”
Il Peverelli ha annuito, come se la mia fosse una saggia disamina. “Io pensavo ai culi delle ragazze. Però nulla ti vieta di guardare i culattoni, se preferisci.”
“Stai insinuando che sono culattone?”
“Sto insinuando che i gusti son gusti, i culi son culi, e magari oggi all’Idroscalo qualcosa da ammirare la troviamo. Allora, andiamo?”

In Riviera Est il pratone era vuoto. I temporali della notte e il secondo lunedì di settembre avevano scoraggiato i culi agognati dal Peverelli. Alle nove di mattina ci facevano compagnia solo alcuni relitti Auser, che esibivano le vene varicose come ferite di guerra. Poi c’era quella cuffia arancione, avanzava lenta oltre le boe della zona balneabile.
“Ma l’hai visto quello?” ha detto il Peverelli, indicando la cuffia arancione in mezzo all’acqua. “Cioè, è perfino più vecchio di noi. Che cavolo si è messo a nuotare così lontano. Non si può nemmeno, poi.”
Ho scosso le spalle, sconsolato. “Non so se ha molto senso stare qui.”
“Vedrai che i culi arrivano” ha detto il Peverelli, sgranando il suo sorriso giallastro da fumatore incallito. “Mettiamo giù i teli, per intanto.”
Non ero molto dell’idea. La desolazione di quel prato spelacchiato, privo di lettini e bagnanti sotto i settanta, mi stava intristendo oltre il dovuto. Non che fossi davvero convinto che avremmo passato una bella giornata. Puntavo a tirar sera senza pensare troppo, più che altro. È l’aspirazione che mi accomuna al Peverelli, col quale ho smezzato trent’anni di polvere in un ufficio del polo catastale.
“Coraggio, Brambati” mi ha incitato il Peverelli. “Non farmi la cariatide, adesso. Siamo giovani dentro, ricordatelo. Io l’altra sera mi sono scolato un Mojito.”
“Sì, ma poi hai passato la notte sul cesso” gli ho fatto notare.
Il Peverelli stava per replicare con l’ennesima freddura, quando i suoi occhi sono diventati piccoli e attenti. Ha come trattenuto il respiro, guardando dietro di me. “Oh, cazzo” ha detto a mezza voce. “Guarda! Guarda!”
Mi sono voltato, seguendo la direzione del suo sguardo stremito.
La cuffia arancione, in mezzo all’acqua, non c’era più.

Siamo rimasti lì per qualche minuto, attoniti. A raccontarci che forse ce l’eravamo sognata, quella cuffia arancione. Non c’era altra spiegazione, anche perché nessuno dei relitti Auser sembrava essersene accorto. Uno mica annega così, senza nemmeno chiedere aiuto; non va giù come un sasso, nel silenzio triste di un lunedì mattina.
“Dovremmo avvisare qualcuno” ho detto. “Il bagnino. Ci sarà un cavolo di bagnino, no?”
“Certo che c’è, il cavolo di bagnino” ha detto il Peverelli. “Dopo le dieci, però.”
“Mica possiamo andare via così, scusa.”
Il Peverelli ha osservato la superficie scura del bacino. Ha raccolto il suo telo dal pratone spelacchiato. “Cioè” ha detto, e già era un mezzo sì. “Mica ci sparano, eh. Poi ci sono i rinco laggiù, spiaggiati per le ultime sabbiature. Non è che dobbiamo averla vista per forza, quella cuffia arancione.”
“Dai, Riccardo” ho detto io. “È appena annegato uno.”
Il Peverelli ha scosso la testa “Anche se fosse, di certo non è stato un incidente. Mi ha guardato, Brambati. Mi ha guardato e non ha detto niente. Si è lasciato andare giù.”
“Stai dicendo che si è ammazzato?”
“Sto dicendo che adesso andiamo via. Oggi non è giornata, per i culi. E nemmeno per noi.”

Tre giorni dopo ci siamo rivisti all’Osteria del fumo passivo, in piazzale Maciachini. È un postaccio decadente, incastrato tra il benzinaio e un Compro Oro. Da una certa ora in poi la gente comincia a fumare. Ci sono perfino i posacenere in vetro sui tavoli, come una volta. Quella cortina di fumo che aleggia come nebbia ha il potere di riportarti indietro.
Il Peverelli masticava una cotoletta con gran rumore di ganascia. Mi ha allungato un ritaglio del Corriere di Milano.
“L’ho già letto, grazie” gli ho detto, restituendo il trafiletto che parlava del Ninin.
Ai tempi era stato quasi famoso, questo Ninin. Faceva musica, quando aveva vent’anni suonava con Jannacci e Gaber. Poi le cose erano andate storte, e la vita gli era scivolata via. Era scappato da una RSA tre giorni fa. Da allora nessuno lo aveva più visto.
“Dici che era lui, la cuffia arancione?”
Il Peverelli ha annuito, sbranando quel poco di carne che restava nel piatto.
“L’altro giorno, quando ti ho trascinato all’Idroscalo, era il compleanno del Michele. Venticinque candeline. Per questo volevo compagnia. Non avevo il coraggio di fare quello che faccio di solito. Non lo trovo più, io, il coraggio.”
Il Michele è il figlio del Peverelli. Lo hanno avuto tardi, ma era un fiore. Fino all’incidente, l’auto che carambola sul marciapiede e addio. In coma da allora, nessuna speranza che possa riprendersi. Il Peverelli lo va a trovare ogni giorno, in quella clinica che gli strappa l’anima e la pensione. Gli lava i capelli, gli fa la barba, gli parla come se lui potesse sentirlo.
“Poi invece ci sei andato lo stesso” l’ho anticipato, perché lo conosco. Conosco le lacrime dietro ai suoi latrati da clown incarognito.
“Ci sono andato, sì” ha ammesso con gli occhi bassi. “Con la torta e il regalo, bestemmiando come sempre. Io mi auguro che Dio non esista. Perché, se invece esiste, quando arrivo di là gli faccio un culo così.”
“La mia cotoletta è piuttosto immangiabile” gli ho fatto notare, per tamponare il rancore e strappargli un sorriso.
Il Peverelli si è aggrappato a quelle parole, ci ha ghignato su. “Comunque sì, per me era il Ninin. Spero che fosse lui. Chissà dove l’ha rimediata, quella cuffia arancione, e perché la indossava. Forse voleva l’applauso del pubblico, per l’ultima volta. Solo che gli è andata male, l’unico sguardo che ha catturato è stato quello di questo vecchio rincoglionito.”
“Dovremmo dirlo a qualcuno” ho insistito.
Il Peverelli ha scosso la testa, raspato con le zampe nel cestino del pane. “Ha fatto la sua uscita di scena, non voglio sporcagliela. E non lo farai neppure tu.”
Ha masticato un pezzo di michetta, con la bocca aperta e la faccia stanca. “A volte penso che sia solo il dolore a tenerci in piedi. Imbarchiamo dolore da tutte le parti, passiamo il tempo a buttarlo fuori con un pentolino. Fino a quando siamo troppo stanchi per continuare, e allora andiamo giù.”
La cortina fumogena ammorbidiva il suo volto cupo, gli occhi umidi, quei dentoni gialli che mozzicavano l’aria insieme al pane. Poi il Peverelli ha ghignato allupato, strappandosi la vita di dosso con meravigliosa cialtroneria. “Oh, ma l’hai vista la Michelina stasera? Mica porta il reggipetto. Cosa c’avrà, vent’anni al massimo?”
Ho sorriso dentro al fumo, ricacciando indietro le lacrime. Avrei voluto allungare una mano per sfiorare la sua, ma il Peverelli non è tipo da smancerie. Cercavo di non pensare a suo figlio Michele, al Ninin che si lascia andare a fondo nel mare di Milano.
La Michelina è tornata da noi e sì, il Peverelli aveva ragione. Non indossava il reggiseno.