Zafferano killer
Eliana Zambito Marsala
Un omicidio così tanto bizzarro non era mai avvenuto nella città di Milano.
In una piovosa mattina ottobrina trovarono morto un uomo su uno dei tanti storici tram milanesi. Il tranviere che all’alba era andato a ritirare quel tram dal deposito per iniziare il servizio mattutino ebbe uno shock alla vista del cadavere seduto sulla vecchia panca del mezzo.
Il morto aveva il viso cinereo e gli occhi spalancati, mentre le braccia penzolavano giù.
Le labbra erano gialle perché probabilmente prima di morire stava mangiando il risotto allo zafferano come si evinceva dal piatto che teneva sulle cosce, ormai freddo da ore.
Poteva essersi soffocato durante il pasto, ma no, era stato ammazzato dal cianuro perché la sua presenza nel piatto era stata rilevata dalla polizia scientifica.
Le forze dell’ordine allora avevano setacciato le telecamere nei dintorni, ma non avevano trovato nulla di significativo. Nessuno era entrato nel deposito dei tram oltre alla vittima.
Sarebbe passato per un suicidio se non ci fosse stato un altro caso simile a distanza di una settimana circa.
Una donna fu trovata morta vicino ai tornelli della metro gialla poco prima che cominciassero le prime corse. Anch’ella aveva le labbra sporche di crema allo zafferano e un piatto con il risotto tra le mani.
Era il modus operandi dell’omicida che doveva avere un legame particolare con il risotto allo zafferano dato che era la stessa arma del delitto.
Per impedire altre morti le autorità raccomandarono ai cittadini di evitare di mangiare il risotto alla milanese fino a che il duplice omicidio non avrebbe avuto nuovi risvolti.
Per qualche strano motivo forse l’assassino prendeva di mira gli amanti del risotto allo zafferano.
Però la raccomandazione non bastò per fermare un altro delitto che avvenne ancora la settimana successiva.
«Immagino che il morto abbia in mano un piatto con il risotto alla milanese!», aveva sbraitato il commissario Mariani quando gli avevano telefonato per informarlo dell’ennesimo cadavere trovato riverso tra i fiori gialli di uno dei tanti parchi di Milano.
«Ma cos’ha che non va questo pazzo?»
Il commissario si scervellò giorno e notte per capire i collegamenti ma senza successo.
Secondo lui era una specie di suicidio di massa come accade nelle sette dato che nelle immagini di videosorveglianza le vittime apparivano sempre da sole, però dietro le loro azioni di sicuro c’era un responsabile che aveva fatto loro il lavaggio del cervello. In qualche modo quel folle era riuscito a convincere le vittime a recarsi in posti determinati e a mangiare il risotto avvelenato, così da non apparire mai davanti alle telecamere e da sembrare totalmente estraneo ai fatti.
Vennero interrogati i familiari per scavare nella vita delle vittime, per capire quali fossero le loro abitudini, se ci fosse qualche legame tra loro tre e se facessero parte di qualche stramba setta.
Niente, dalle prime inchieste sembrava non avessero nulla in comune e non avessero nulla che non andava. Persone comunissime con la fedina penale pulita.
Il commissario Mariani ne stava uscendo davvero matto. Non riusciva nemmeno a capire il motivo per cui l’omicida avesse questa ossessione per il giallo, perché aveva notato che le persone che morivano per mano sua venivano trovate sempre in luoghi che avevano un nesso con il giallo.
Anche quel tram, il luogo del primo omicidio, era giallo. Non era affatto una coincidenza.
Il giallo è un colore che non sempre significa vitalità infatti in alcune culture è associato, oltre alla morte e alla pazzia, anche al tradimento quindi l’omicida seriale voleva essere una specie di punitore? Puniva le vittime per qualche torto che gli era stato fatto?
Ma il risotto allo zafferano? Qual era il legame con esso? Quale messaggio voleva dare esattamente l’assassino?
Il commissario Mariani voleva solo strapparsi i capelli. Era un caso surreale e forse impossibile da risolvere. L’assassino era stato molto scaltro.
Dopo la terza vittima non ci furono più altri delitti, segno che l’omicida aveva fatto quello che doveva fare, ed era alto il rischio che il caso irrisolto venisse archiviato per mancanza di elementi rilevanti.
Però il commissario, instancabile e assetato di giustizia, non aveva smesso di indagare.
Scavando ancora scoprì che le tre vittime un tempo tipo dieci anni prima erano colleghi di lavoro.
Avevano lavorato insieme in una piccola trattoria milanese che poi aveva chiuso i battenti dopo la morte di una cliente, Giulia Campolieti.
«Che sia stata una resa dei conti? Questo spiegherebbe perché in ogni omicidio è presente il risotto», rifletté il commissario ad alta voce mentre sfogliava il fascicolo. La povera vittima era in compagnia di una certa Anita Grossi, all’epoca la sua migliore amica. Quel giorno, spensierate come tutti i ventenni, avevano deciso di pranzare insieme per festeggiare i propri successi all’esame universitario e avevano ordinato un bel risotto alla milanese.
Il primo boccone mandò subito Giulia in shock anafilattico e dopo si scoprì che era allergica allo zafferano, un’allergia che si era sviluppata nel tempo senza che lei lo sapesse.
Giulia Campolieti nel giro di pochi secondi era morta così, con gli occhi spalancati e le labbra sporche di crema gialla. Nessuno aveva potuto fare niente per salvarla.
Nel momento in cui leggeva la relazione delle indagini il commissario Mariani ebbe un’illuminazione!
Qualche mese addietro l’uomo aveva partecipato a un convegno di psicologia criminale dove si era parlato anche di fobie strane. Tra queste ricordava anche della xantofobia, la paura del colore giallo. Di solito chi ne è affetto prova un’intensa angoscia quando vede questo colore, ma ne è anche ossessionato per anni.
La psicoterapeuta del convegno aveva spiegato che per uscirne bisogna esorcizzare la paura.
Erano solo supposizioni ma era probabile che l’omicida avesse sviluppato la xantofobia perché associava il colore giallo alla morte di Giulia e non riusciva ad uscirne quindi per liberarsi di questa fobia opprimente avrà pensato bene di uccidere il titolare, la cassiera e il cameriere della trattoria anche se non erano responsabili della morte della ragazza.
Avendo ormai una mente malata l’assassino si sarà convinto che quello fosse l’unico modo per liberarsi una volta per tutte della xantofobia.
«Verifichiamo se a questa Anita Grossi piace il giallo», disse sarcastico il commissario Mariani infilandosi la giacca.
Quando l’uomo suonò a casa della signorina Grossi sentì un buon profumino di cipolla e burro. Il suo stomaco brontolò ma il commissario sbuffò, perché non era il momento di pensare a mangiare.
Gli aprì una donna che aveva addosso un grembiule da cucina un po’ infarinato. Era così diversa dalla foto del fascicolo ed era invecchiata più del normale.
«Lei è Anita Grossi?», domandò l’uomo.
La donna lo osservò accuratamente e annuì serena. Ma aveva uno sguardo folle, appurò il commissario.
Con quegli occhi spiritati e spietati avrebbe potuto terrorizzare chiunque, incluse forse quelle tre povere vittime che avranno ubbidito ai suoi ordini bislacchi senza capire che comunque sarebbero andati a morte certa.
Anita infine fece un sorriso inquietante.
«Gradisce un po’ di risotto allo zafferano?»