Dialoghi nel buio
Claudia Fofi
Mi consigliano questo psicoterapeuta. È bravissimo, mi dice l’amica della mia amica, evitando con un certo tatto di guardarmi negli occhi, che in quel periodo ho troppo tristi. Siamo a tavola, io sbriciolo il pane sotto il tovagliolo mentre lei parla di questo eccezionale psicoterapeuta. È non vedente, dice.
È un caldo giorno di giugno, Perugia soffoca sotto un vento di sabbia, un vento africano. Lui mi accoglie a mano tesa, gliela stringo entrando. Non porta occhiali, ma i suoi occhi non li guardo. Mi dice attenda qua. Il salotto è accogliente come un discount di periferia. Arredato con mobili degli anni ’80, sui toni del marron. Come la casa di una suocera triste. O di un avvocato permaloso. Grossi romanzi di Ken Follett. Grossi tomi di Freud. Vecchie videocassette tutte numerate.
A un certo punto la sua voce dal corridoio dice venga. Entri, si sdrai lì. Lì è un’eccentrica chaise longue gialla. Accanto a quella ce n’è un’altra uguale. Lui è seduto dietro la scrivania. Appena mi allungo spegne la luce. Si fa un buio pesto, nerissimo, incredibile per una stanza in piena mattinata di sole. Non si preoccupi, dice, favorisce il rilassamento.
Allora mi dica, qual è il problema? La sua voce suadente contiene una nota di asprezza che il buio aiuta a intercettare. Non vedo la punta dei miei piedi, non mi vedo le mani incrociate sopra la pancia. Ho voglia di fuggire.
Sono qui perché sto soffrendo molto per la separazione da mio marito, riesco a dire.
Lui eccitatissimo inizia tutta una dissertazione fiume partendo dalla mia mano che a suo dire ha stretto la sua “a conchetta” e quindi non va bene, ipotizzando quindi una fondamentale frigidità mia causata da una madre castrante e da un padre assente arrivando poi a desumere che la madre del mio ex era con molta probabilità lesbiforme, suo padre aveva un disturbo della personalità e comunque io non avevo avuto abbastanza orgasmi multipli.
Un mese prima mi trovavo a Milano, dove con la mia amica Simona avevamo deciso di visitare l’Istituto dei ciechi, che offriva la possibilità di partecipare a un’esperienza chiamata Dialogo nel buio. Arrivate sul posto, dopo le fasi preliminari di pagamento e sistemazione delle borse, che si svolgono in un ambiente normalmente illuminato, veniamo introdotte in un luogo totalmente buio. Un’oscurità plasmata di netto, artificiale e reale.
La nostra guida non vedente si chiama Lucia. Ci accompagna lungo un itinerario dove incontriamo odori e sensazioni, andiamo in barca con il vento in faccia, ci troviamo in un incrocio di città, tocchiamo cespugli, pareti di legno, bancarelle con la frutta. Lucia scherza molto, si diverte a prenderci in giro. Attente! Una macchina! Clacson, aria che si sposta al passaggio di un’auto che non c’è.
Non sapevo di muovermi così bene al buio. È Lucia a farmelo notare. Lei sa sempre cosa accade, dove sono io e dov’è Simona. Mi fermo sul ponticello di legno che conduce a un’imbarcazione. Dondola un po’. Intanto ci racconta la sua vita, rapida, come un disegno infantile fatto di pochi tratti incerti. Ha vaghi ricordi dei colori, perché ha perso la vista da bambina. L’azzurro appartiene a una sensazione di leggero e triste, dice. Il marrone è tiepido come questo muro. Il bianco è come un corridoio con in fondo una finestra. Il giallo non lo capisco. So sempre dove devo andare, dice. So sempre da che parte girarmi per non cadere. Non vedo, ma vedo in un altro modo.
Essere bella o brutta non le importa. Non vedere gli uomini di cui si innamora non le crea imbarazzo. Dalla voce indovino la sua età e glielo dico. È molto felice che non le abbia dato più anni e mi prende una mano, la stringe.
Sono sopraffatta da un’emozione molto forte mentre l’ascolto. Voglio costruire qualcosa per me, per Lucia, per questi pochi minuti che mi separano dal rientro nella mia esistenza illuminata. Gioire di quello che non vedo ma intuisco: la gentilezza non ha bisogno di occhi, la bontà traspare dalla voce, il rispetto si respira nel movimento del corpo, nell’andare verso l’altro e nel riceverlo.
Le persone vibrano ma non lo sanno, dice lei. Pensano che siccome hanno gli occhi per vedere, allora vedono. E ride. Lei le annusa come un animale, le persone. Entra in un museo dove le spiegano i quadri. Immagina i quadri a modo suo, ma sente la loro bellezza dall’energia delle persone che le stanno vicino. La loro estasi di fronte a un quadro meraviglioso Lucia la percepisce. Dio deve averci donato delle antenne capaci di captare il bello in ogni modo, dice. Anche in questo nero dove pare che non c’è niente, ma cos’è il niente. Niente è dopo che sarò morta. Ora ci sono suoni, odori, questo buio pieno di pensieri, dove gli altri gestiscono la realtà, dove mi ritaglio piccoli spazi di autonomia. Non l’autonomia di vestirmi o di camminare con un bastone per ciechi. Quello è facile. L’autonomia di essere chi mi pare e di vedere nel buio un mondo diverso dal tuo. Un altro mondo proprio, che per te non esiste e che per me è comunque bellissimo.
Ci avviciniamo alla fine del percorso, entriamo in una zona diversa. C’è un brusio di voci, dev’essere una specie di bar. Ci sediamo e ordiniamo al cameriere, che ci porta le birre mettendocele direttamente nelle mani. Le mani sanno che le birre sono arrivate. La birra trova la strada verso la bocca. Qualcuno suona un pianoforte, altri cantano. Dico a Simona dai, andiamo verso la musica. Non è facile trovare gli scalini, farsi spazio nel gruppetto. Posso suonare? Chiedo a voce alta. L’effetto notte rimbalza dal trovarsi nel pieno della scena all’osservarla dal fuori senza poterla vedere. Certo! Mi sento rispondere. Suono una musica mia. Il piccolo gruppo si stringe intorno al piano, sento il calore, la curiosità. Mi stupisco di poter suonare al buio, abbandono il viso di lato. Il mio viso ignorato, il viso che mio marito non ama più. Mi alzo in piedi di scatto e mi trovo tra le braccia di un tipo alto con il petto ampio, che dopo un attimo di esitazione mi chiede perché sei triste?
Decido di appoggiarmi sul suo petto e mi rilasso. Mio marito mi tradisce, dico. Ho paura di perderlo, forse l’ho già perso. Lui mi solleva il viso e si avvicina per tentare di baciarmi, così, come se fosse il naturale finale della storia. Accetta il mio diniego con naturalezza. Mi racconta che lavora in banca e fa anche il fisioterapista. Mi massaggia le spalle a lungo e a me viene da piangere. Mi sento talmente sollevata in quell’istante così breve. Talmente sollevata di non dovere apparire. Di poter piangere al buio in quella situazione assurda.
Dopo quello che mi è sembrato un lungo momento fuori dal tempo e dal mondo, torniamo nella luce. Vedo Lucia ora. Il suo viso senza contorni, come spossato da un vento interno, persistente. I miei occhi registrano altri particolari. Altezza, forma del naso, corporatura. Tutto ricomincia a esistere.
Mi alzo dalla chaise longue gialla. Lo psicoterapeuta ha acceso la luce. Guardi non si preoccupi la sua è una situazione che si risolve, suo marito torna, torna di sicuro. Ha preso una sbandata. Lei faccia come le dico, non lo assilli e vedrà che torna. Stringo la mano a conchetta, saluto.
La luce di giugno fuori è accecante.