20 che cambiano

Francesca Collarile

I vent’anni sono un’età fragile. Lo spirito ribelle e le nostre passioni non bastano a darci un’identità. Dobbiamo anche fare per essere: è così che funziona il mondo degli adulti. Perciò, nello spaesamento di questa età, ho deciso di andare a vivere a Milano, non senza la preoccupazione di mia madre e lo scherno di mio padre: “E tu dalla Calabria Saudita vorresti diventare milanese, eh?”. Così mio padre chiama la terra da cui vengo, la Calabria, il che dà una semplice idea di quante possibilità di lavoro ci siano qui.

Arrivata a Milano avevo già un posto di lavoro in uno studio di depilazione laser. Dopo neanche un mese avevo capito il senso degli stereotipi su Milano ma avevo anche scoperto il suo “lato nascosto”. Per spiegarvelo, vi racconto una breve storia, che inizia dalla conversazione con la mia collega Corinna:
«In che senso non vuoi fare gli straordinari. Guarda che ti pagano di più.»
«Sì ma a me i soldi dello stipendio bastano.»
«E non vuoi farne di più? Ragazza, dovresti essere più ambiziosa.»
«Invece io la sera vorrei tornare a casa a leggere, piuttosto che stare altre due-tre ore qui.»
Corinna mi guardava come fossi un animale allo zoo, e un po’ mi ci sentivo, diversa e fuori luogo. Quel giorno pensai che forse avrei fatto bene a tornare nella mia Calabria Saudita. Avrei lavorato per l’azienda agricola di famiglia e avrei potuto leggere tutti i libri che volevo, seduta sotto l’albero di fichi in giardino. Quella sera, finito il turno alle 19, sentivo il bisogno di una birra per pensarci su. Decisa a cercare un locale in zona, vagavo senza meta quando una donna vestita con un tubino e un cappello di colore giallo sgargiante mi passa davanti, attraversando una piazza. La guardavano tutti, che strano soggetto. D’istinto la seguo da lontano finché non la vedo entrare in un bar stile anni ‘20. Spero abbiano la birra.
Entro nel locale con le pareti tappezzate di quadretti di donne che sorseggiano drink. Mi siedo al bancone in legno e ordino una birra rossa. Dopo avermi portato da bere, il barista torna a conversare con la donna in giallo. Pare che lei fosse appena tornata da un viaggio in Brasile.
«Mi ha invitata a pesca con lui e mi ha spiegato che è così che procaccia il cibo per tutta la famiglia. Quando il pescato va bene, a fine giornata si può mangiare; altrimenti, nei giorni in cui si prende poco o nulla, digiunano. Capisci perché dico che è assurda la visione di certe persone? Abbiamo cibo, acqua, istruzione, lavoro, sanità, eppure continuiamo a lavorare per accumulare soldi, piuttosto che spendere quel tempo per vivere.»
La donna dal cappello giallo si volta verso di me, ormai era palese che li stessi ascoltando: «Vero ragazzina?» Scombussolata dalla dissonanza fra il discorso di Corinna e quello della donna in giallo, per un attimo nella mia testa si fa il vuoto, finché non compare l’immagine di un albero di fico.
«A me piace leggere.» Affermo, totalmente fuori contesto. Poi tento di spiegarmi: «Non so cosa sia giusto, magari accumulare lavorando gratifica chi non ha trovato una passione, lo fa sentire utile e il voler avere sempre più cose è solo una scusa per spingersi a fare. Io invece gli straordinari a lavoro non voglio farli, i soldi mi bastano e voglio tornare a casa a leggere la sera.»
«Ma allora sei anche tu una Outsider!» Interviene il barista con entusiasmo. «Se non lavori lontano, qui troverai tanti outsider come te, persone che vivono nella società ma hanno una mentalità diversa. In questo bar potrai ascoltare tante storie…qui sei la benvenuta!»
«Rick ma non stavi cercando del personale?» Lo interrompe la donna in giallo.
Così, questa è la storia di come ebbe inizio la mia vita lavorativa in quel bar anni ‘20. Da allora ho avuto tempo di leggere, ascoltare storie, argomentare discorsi vari con persone di ogni genere. Tre anni dopo ho pubblicato il mio primo libro, dopo altri due il primo bestseller. Oggi ogni tanto ancora mi chiedo: chissà se qualcuno, seduto sotto un fico, nei meandri della Calabria Saudita, mi starà leggendo.