Connessioni

Mariagabriella Licata

Era cominciato a gennaio, proprio all’inizio degli anni ‘20 di questo secolo. Rientrati a scuola dopo le feste, leggevamo I Promessi Sposi; e cercando in rete “peste manzoniana”, c’eravamo imbattuti nelle parole pandemia, focolaio, poi nel nome Cina.
“Perché Cina, prof?”, aveva chiesto Emy. E io avevo raccontato di Wuhan, della febbre, della velocità con cui si diffondeva e dell’allerta che stava determinando.
“Ah, -aveva detto lei- è un’influenza! Sarà più seria delle altre, ma è in Cina e noi siamo a Milano, dall’altra parte del mondo. Che c’importa?”
Tre settimane dopo c’eravamo dentro. Senza saperlo, camminando per strada, facendo l’aperitivo o la fila alla Posta, stipati sull’autobus o nella sala d’aspetto del medico, c’eravamo finiti dentro.
Senza averne la percezione, eravamo entrati in un periodo del tutto particolare della nostra storia personale e collettiva. C’era stato un telegiornale con la notizia del malato 0 a Codogno, e da lì un’escalation di aggiornamenti, di bollettini, di proclami in TV, di decreti e polemiche. Un’overdose di informazioni (che, anche se non cercavi, ti piombavano addosso ogni momento). Una pandemia mediatica, dove il virus di un fuoco di fila di notizie ti infettava il cervello, l’emozione, l’inconscio.
Nella città invece -di colpo- era calato il silenzio, un silenzio mai udito prima. Solo qualche auto per strada, un cinguettio insolitamente canoro, il suono allarmante delle ambulanze sui viali.
Mai visto così il mio cortile, al 50 di corso di Porta ticinese. Prima affollato da musica e rumori, da moto di grossa cilindrata e dai soliti tipi: la donna rasata che scambia effusioni con la morettina, i due rapper pugliesi, i bikers di Harley in pelle nera e stivali, adesso è vuoto.
Anche Viki, la tattoo artist, ha chiuso. E io che stavo sempre seduta sugli scalini del suo negozio a fumare, ora non so che farmene dei pomeriggi. (Io sono una che parla poco ma con Viki ci capiamo lo stesso. Lei, come me, sa che i tatuaggi dicono tutto quello che c’è da dire: raccontano l’uragano che abbiamo dentro).
Oggi sono uscita per la spesa e, snobbando i decreti, ho allungato il giro sino a Porta Cicca.
Mi sono guardata intorno. Saracinesche abbassate, finestre chiuse; dietro le grate delle vetrine, manichini nudi senza parrucca e accessori, eppure allusivi, come nello sguardo premonitore di De Chirico.
Le strade, gli incroci, la Porta con le sue alte colonne piene di buio nella piazza stranamente vuota, mi danno lo stesso brivido che, anni prima, avevo provato di fronte ai paesaggi urbani del pittore ferrarese.
Il Ticinese, quel budello di via che fa da cerniera tra Duomo e Navigli – una carta moschicida appesa al lampadario di Milano per catturare artisti e creativi, tutta quella variopinta tribù che la città attira a sé da ogni dove come una calamita – non sembra più lui.
A guardarla così la città mostra il suo volto metafisico, una sua parte più intima, come una donna senza trucco.
Osservo il selciato, l’intonaco dei palazzi, il famoso giallo Maria Teresa, il Pantone Ral 1023, lo stesso dei tram del ’28 (quelli della metà degli anni ’20, ma del secolo prima).
Scruto gli angoli di strada, lì dove i caseggiati si congiungono in una linea verticale e affilata, il luogo in cui due vie si incrociano e aprono due prospettive, dove basta girare la testa e sembra che cambi storia o epoca, talvolta. Quei perni di forbice in cui le strade parlano tra loro, raccontano delle generazioni che ci hanno preceduto.
E dicono di noi, del nostro tempo. Della svolta improvvisa che un giorno ha fatto il tempo, qui a Milano.
Risalgo il Corso verso il centro, mi infilo sotto la Porta medievale, lascio a destra le colonne di San Lorenzo, punto a raggiungere un posto preciso.
Voglio tornare a vedere la casa rosa ad angolo con la lapide a futura memoria.
“Qui visse Gian Giacomo Mora, barbiere, ingiustamente ucciso come untore. 1630”
Poche parole, per raccontare di un’atroce ingiustizia perpetrata dal pregiudizio e dalla smania di trovare un colpevole (uno, quale che fosse). Non lontano da lì, un tempo, c’era la Colonna infame.
Rientro a casa, salgo le scale. Una volta dentro, spalanco la porta e trascino una poltrona sul ballatoio del vecchio stabile, che un tempo ospitava un monastero di religiose. Mi sistemo al sole tra i muri segnati dalle molte epoche all’interno dei quali – sembra – si aggiri ancora lo spirito di una suora che nottetempo visita i sonni dei nuovi inquilini, come lei – perlopiù – anime senza Dio.
Pure io, specie nei miei primi mesi qui, ne ho sentito il respiro; e certe sere, nella pioggia battente sul lucernario, mi è sembrato di distinguere un bisbiglio di parole.
Una notte l’ho vista. Era dritta ai piedi del letto, mi fissava.
Vederla mi ha spaventata, ma non stupita, era come se la conoscessi. È stato allora che le ho dato un nome: l’ho chiamata Matilde e l’ho sentita subito come una di famiglia.
Col tempo ho smesso di vederla. Forse, ormai, ha capito chi sono e adesso mi parla, senza parole, nella mente.
Voi vivi avete un’idea limitata della morte. – mi ha detto un giorno – Chi muore non svanisce; resta. Come una serpe che, tagliata in due dalla zappa, ancora muove la coda; come i pesci pescati che a lungo guizzano sul fondo della barca. Restiamo lì, dove siamo vissuti. Voi non ci vedete, ma siamo parte dell’aria; alcuni per un poco, altri per sempre.
Affondata nella vecchia poltrona, mi godo il sole; e questo tempo che in qualche modo ci avvicina alla morte, ce la rende vicina di casa. (Ogni giorno si contano morti, si fanno bollettini come in guerra. Penso ad Anna in quarantena al piano di sotto; penso al signor Luigi che era finito in ospedale e non è più tornato).
È questo tempo che fa sentire più forti le presenze di chi c’era e di chi c’è.
Come il silenzio, che libera la voce antica delle pietre e dei palazzi (voci fioche, di norma soffocate dal fragore del traffico e dalla musica a tutto volume).
Ci ha resi più vicini, la lontananza?
È stato naturale per me, pensare a Lisa che abita sullo stesso piano ed è molto anziana. Ora sono io a farle la spesa. Gliela lascio sullo zerbino di casa, lei poi mi infila i soldi sotto la porta. Ci avrà resi più prossimi, l’isolamento?
Non parrebbe; a incrociarci mascherati dentro i supermarket, ci scambiamo solo sguardi ostili: Ehi, stronzo, non avvicinarti! Com’è che tieni la mascherina sul collo?
Io sono rimasta quasi sempre in casa, ho cercato di ascoltare. Ho pensato alle persone, ho dormito e sognato di più.
Ho sentito Tilde nella sua vita reclusa e sofferta, nel suo dibattersi tra il desiderio di ascendere a Dio e quello di scendere tra gli uomini e le loro meschinità di ogni giorno. L’ho sentita intrappolata tra le due forze, e per questo bloccata qui: fuori ma ancora dentro al mondo.
Ne ho avvertito gli slanci sinceri nella preghiera dell’alba e le spine roventi dell’invidia per chi passava per strada nel frusciare dell’abito della festa.
Ho immaginato? O, piuttosto, il mio cuore ha -per pochi istanti- battuto all’unisono col cuore di chi vive o aveva vissuto tra queste mura?
Tilde, una volta mi è sembrato dicesse, che noi -tutti noi- comunichiamo in virtù di una linfa invisibile: siamo rami dello stesso albero.